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Roberto Ferruzzi (1927-2010) nasce a Venezia da una famiglia di artisti: è infatti nipote omonimo di R. Ferruzzi, il pittore della famosa Madonnina. Frequenta la Scuola d’Arte nella città natale e si specializza anche nel mosaico con il pittore Aldo Salvadori. Dopo la guerra collabora per qualche anno con il padre antiquario, ma nel 1951 parte per l’estero, deciso a riprendere l’attività pittorica. Viaggia e lavora in varie città e capitali d’Europa, applicandosi anche alla ceramica, creando figure di musicanti, pulcinelli e maschere.

Realizza grandi mosaici murali, paesaggi ad olio e tempera, disegnando sempre e ovunque.
Risiede a lungo in Scandinavia e nel 1957 parte per il Sudamerica, dove vive per tre anni, fermandosi soprattutto in Cile. Anche lì produce lavori di mosaico e ceramica per ospedali, edifici pubblici e privati, chiese, ma soprattutto cerca di dipingere la vita della gente povera, denutrita e malvestita che incontra per strada, al mercato, negli autobus. I bambini che d’inverno dormono sotto ai cani per riscaldarsi, che cercano cibo nella spazzatura e gli uomini disperati, anche violenti, che a volte litigavano fino alla morte.

Di tutto ciò Ferruzzi cerca di “parlare”, colpito dal popolo “maltrattato e amareggiato” di Neruda. Il grande poeta cileno rimane turbato dalla sensibilità del pittore veneziano e tanto si entusiasma per le sue opere che gli dedica questa poesia:


Hay una Amèrica lavada por grandes tempestades y luego aderezada por el fuego solar. Todo brilla, verde y volcànico, todo florae hasta morir; todo se estremece trinando. Derrochador planeta!

Hay otra Amèrica de soledad, de pobladores fatigados, de oscura desdicha, da luchas memorables, de andrajos sangrientos o de la muerte instantànea.

Bobo Ferruzzi, veneciano, escogiò esta Amèrica dolorosa, la sintiò, la viviò y la expresò con energìa y ternura. Porque hay amor en la vision de este veneciano amargo. Pintò con clàsicos colores, los mismos que antes lucìan en la vestidura de los angeles, la tristeza de los arrabales remotos, de hombres maltratados y olvidados.

Que el intenso mensaje de Bobo Ferruzzi cuente y cante en el mundo, porque la verdad de su pintura nos descubre la tràgica belleza que los dioses transitorios quieren esconder. Y non para que los pueblos no sufran sino para que no se sepa.

La pintura de Bobo Ferruzzi rompiò las cerraduras e illumino los rincones con una luz azul.


Esiste un'America lavata da grandi tempeste e subito riassestata dal fuoco solare.
Tutto brilla verde e vulcanico, tutto fiorisce fino a morire, tutto si estingue cantando.
Prodigo pianeta!
Esiste un'altra America di solitudine, di coloni affaticati, d'oscura disgrazia, di lotte memorabili, di cenci sanguinanti o di morte istantanea.
Bobo Ferruzzi, veneziano, scoprì quest'America dolorosa, la sentì, la visse e l'interpretò con energia e dolcezza, perché c'è amore nella visione di questo veneziano amareggiato.
Dipinse con colori classici, gli stessi che precedentemente luccicavano nelle vesti degli angeli, la tristezza degli angoli remoti, degli uomini maltrattati e dimenticati.
Che l'intenso messaggio di Bobo Ferruzzi racconti e canti nel mondo, perché la verità della sua pittura ci scopre la tragica bellezza che gli dei transitori vorrebbero nascondere; e non perché i popoli non soffrano ma solo perché non lo si sappia.
La pittura di Bobo Ferruzzi ha rotto le serrature e illuminato gli angoli con una luce azzurra.


Pablo Neruda, Isla Negra Dicembre 1966




La casa dell’artista


Il campiello si intitola agli Incurabili.
Un dedalo di calli e campielli, proprio dietro le Zattere solatie, introduce alla penombra di un luogo che pare rimasto immutato da tempo immemorabile.
La casa di Ferruzzi era un antico magazzino per legna e carbone: dalle Zattere i velieri scaricavano i tronchi e le peate rigettavano sulla riva il nero combustibile. La sua mano amorosa ne ha fatto uno dei luoghi più deliziosi per abitare: un grande vano ben articolato con soppalchi e tramezzi, che ha un sapore antico e una comodità moderna.
Qui l’occhio non sa cosa afferrare: se le pàtere di pietra d’Istria o le ceramiche di Faenza, un leone persiano in basalto o una stupenda Madonna lignea del Trecento.
Luccicano i piatti bronzei del Quattrocento, alternati a frammenti marmorei di secoli antichi. Tra i quadri, emerge la memoria polverosa del nonno celebre, il Roberto Ferruzzi autore della mirabolante “Madonnina” che ha fatto tante volte il giro del mondo.
Finalmente, da dietro una tenda deliziosamente sdrucita spuntano i quadri di Bobo, che porta il nome del nonno e da tutta la vita è un pittore di buona fama.
Spuntano uno ad uno. Si allineano sulle sedie, sui divani, per terra.
Una mano gentile li porge all’incidenza ottimale della luce.
Attimi di meditazione: brividi di luce. Venezia, la gran siora al di là delle finestre, la bella addormentata, l’Anadiomene che si leva dalle acque della laguna, compare all’improvviso e risplende nell’ultimo raggio di sole, come le vene azzurrine dei pilastri acritani cantati da Ruskin.

Gli inizi


Da bambino, nella Pensione Bucintoro, di proprietà dei genitori, veniva mandato ad accompagnare gli ospiti pittori, cioè a portar loro per le calli la cassetta dei colori.
Fu così che Ferruzzi conobbe Dufy, Lothe, Marquet, Zuloaga, Blanc, F. Desnoyer e altri, che venivano a dipingere le bellezze di Venezia. In loro compagnia Bobo aprì gli occhi, scartando i manierismi allora imperanti in laguna. La pittura gli era entrata nel sangue e non l’avrebbe più abbandonato.
Il vero maestro di Ferruzzi fu Aldo Salvadori, pittore di limpidezze e volumetrie neo-quattrocentesche, che allora insegnava mosaico.
Il giovane Ferruzzi aveva, come si dice, le mani svelte. Gli piaceva rimestare la creta, impastar colori, allineare tessere musive, spolverare vecchi bronzi, accarezzare col polpastrello le paste dei pittori antichi, e magari restaurare un mobile o costruire una barca.



Veneziano nel mondo


Veneziano con le radici infilate nella melma della laguna, Ferruzzi ha seguito l’istinto dei suoi antenati: i viaggi, le scoperte oltre oceano. Quando decise nel 1951 di recarsi alll’estero, Ferruzzi era ormai pittore in senso pieno. Cominciò con l’Austria, la Germania, la Danimarca, la Svezia, la Norvegia. Un lungo soggiorno in Cile, il ritorno in Norvegia. Gli anni passavano. Quel giovane veneziano dall’aria allampanata e dall’inconfondibile accento veneto, nonostante le cinque o sei lingue che parlava correntemente, colpiva per la sua fantasia, per il suo estro, e più ancora per la sua inconfondibile “civiltà”.


Erede degli artisti giramondo, da Tiziano ai Tiepolo, dai Ricci a Rosalba Carriera, gli si riconosceva una “scuola” impareggiabile. Con le sue mani nervose faceva disegni per stoffe preziose, realizzava statuette di ceramica, decorava piatti e vassoi, a Oslo alternava tessuti, ceramiche e mosaici. Finì per lavorare a Nymphenburg, celebre centro manufatturiero delle porcellane: modellava con grazia e straordinario dinamismo Pulcineli e animaletti, composizioni di orchestre che suscitavano ammirazione.

Nei tre anni passati in Cile, ha lavorato su tematiche anche tragiche. Pablo Neruda, che divenne più tardi suo grande amico, ha apprezzato quel modo di scoprire “un’America dolorosa”.




I maestri


Si potrebbe discettare delle influenze che il nostro pittore giramondo ha subito nel corso dei decenni. L’elenco potrebbe partire dall’arte bizantina, dalla pratica musiva che Ferruzzi esercitò fin dall’alunnato giovanile con Aldo Salvadori. Certi pittori amici di Ferruzzi, come Desnoyer e lo stesso Salvadori, hanno sempre dipinto con stesure nette, a campiture staccate di colore. Importante è stata per Ferruzzi la sintesi di un De Stäel, che egli molto ammira; del pari, tornando indietro, la grande lezione di Matisse, con le accensioni brillanti del colore puro. Come non citare altri pittori affini, soprattutto francesi, quali Dufy e Marquet, oltre che Vuillard? Persino con Munch c’è qualche accostamento, e non solo perché Ferruzzi ha risieduto a lungo, a Oslo, in una delle case del grande norvegese.




La luce di Venezia


Ferruzzi ama “costruire”, anche se sembra prevalere l’estemporaneità istintiva.
Venezia, per lui, è un congegno architettonico che deve organizzarsi in un modo compatto; e ciò che porta a questa reductio ad unum è la luce. Ecco il punto saliente: Ferruzzi è il pittore della luce. E questo è perfettamente dentro Venezia.
La Venezia di Ferruzzi non è una città di romantici abbandoni, di evanescenze. Egli è riuscito a cogliere la luce nel suo valore costruttivo. Pittore en plein air, pittore “che guarda”. L’occhio per lui è strumento essenziale: occhio inteso come grande ordinatore. La luce scandisce le masse nella veduta veneziana, ne misura l’intensità, ma ne raccoglie anche le percezioni tonali e timbriche.
Il ritmo diventa anche e soprattutto cromatico.




Il colore


Ciò che caratterizza Ferruzzi è la sua straordinaria sensibilità del colore.
L’eredità di Tiziano e di Tiepolo non è acqua fresca. Il colore non sarà mai per un veneziano il riempitivo della forma, come magari potrà essere per un toscano: esso è la sostanza stessa della forma. Colore-luce che diventa colore-forma.
Le pennellate sono tutte di getto, secondo i dettami dell’antica “pittura di tocco” veneziana. Qui sta la grande abilità di Ferruzzi, quel commisurare il “polso” all’”occhio”, e l’occhio al cervello. Tutto avviene in un attimo: e quel certo punto-luce deve essere esatto.
Venezia diviene un balletto di colori che si rincorrono tra le case, l’acqua e il cielo, tra contrappunti di rossi, di cadmio e verdi smeraldi.
Gli scorci di Burano e di Malamocco toccano il diapason.
Questa è Venezia: la Venezia di Ferruzzi. Una città di luci e colori che si accordano magicamente.



Paolo Rizzi (1932 - 2007)